Dal ‘familismo amorale’ al ‘familismo clientelare’. Oggi vale la fedeltà e affidabilità della propria cerchia di familiari e amici per fare affari. Mi
sembra sintetizzabile, per il nostro paese, in questo sottile passaggio il
cuore del libro dell’ormai noto e telegenico economista italo-americano Luigi Zingales, “Manifesto capitalista”,
uscito da pochi mesi e già ai vertici del mercato editoriale e soprattutto
forte stimolo alle apparizioni pubbliche del nostro economista della Chicago
Booth Business School.
Il titolo originale in americano, e quindi per il mercato d’oltreoceano,
è molto più accattivante e centrato sull’obiettivo: “A capitalism for the
people”. Abbiamo bisogno di un capitalismo per la gente, per la crescita del
benessere di un popolo, non dei ‘soliti noti’. Come titola il paragrafo finale:
un sistema capitalistico per il mercato e non per il business.
L’economista, che ha un invidiabile CV ed è uno dei tanti ‘cervelli
italiani’ fuggiti all’estero e che stanno riscattando l’immagine del nostro Paese
nel mondo, e recentemente inserito tra i 100 pensatori più influenti al mondo
da Foreign
Policy, centra la sua analisi sul modello americano, cogliendone tutti i
rischi e gli errori che nel recente passato ne hanno minacciato la solidità e
affidabilità. Non a caso il suo ‘incipit’ si riferisce alla eccezionalità
americana, cioè i suoi fattori storici, geografici, culturali e istituzionali, e
allo schema ideale di Horazio
Alger, il famoso scrittore che ha descritto centinaia di storie di successo
in suolo americano, come di un terreno da recuperare.
La grande accusa di Zingales, che fondamentalmente parla al mondo
americano, è il cancro del clientelismo penetrato nel sistema capitalistico
statunitense, attraverso il crescente potere delle lobbies, della caduta del
criterio del merito, dell’indebolimento del sistema educativo.
Se parlare di capitalismo americano significa evocare anche
in Italia un modello cercato, imitato e invidiato nel passato, oggi la crisi
dei famosi subprime nel 2008 ha
indebolito la fiducia in quel sistema, che ha prodotto tanti danni anche nella nostra
Italia.
Alla fine del testo, che si legge con molta facilità,
mescolando dati scientifici e aneddoti personali, è presente un capitoletto per
l’edizione italiana. È la parte più interessante. Ed è la tesi più dura da
digerire: l’Italia manca di cultura di legalità, di merito, di fiducia e di
cooperazione. Ecco perché ho parlato di ‘familismo clientelare’, perché, come
dice Zingales, “si trovano le migliori segretarie e i peggiori dirigenti”, “vince
al fedeltà sulla competenza”, “è più importante chi conosci piuttosto di cosa
conosci”, “prevale la cultura della furbizia invece che quella dell’onestà”, perché
“in Italia il delitto paga” e non è punito. L’Italia del miracolo è diventata
quella del declino e perché si chiede l’autore? Per due rilevanti motivi: c’è
un sistema di valori, di mancanza di etica, dovuto ad un numero esorbitante di
norme per cui “nessuno si sente completamente dalla parte del diritto”, “e se
tutti sono colpevoli, nessuno lo è davvero”. Il secondo motivo è dovuto al
perdurare della “peggiocrazia”, sopravvissuta “distribuendo piccoli privilegi a
destra e a sinistra”.
Il sistema capitalistico inquinato e corrotto dalla mancanza
di etica, di valori è un pericolo per tutti.
La meritocrazia è la soluzione sia in economia che in
politica, ecco perché Zingales manifesta la sua assoluta fiducia nel meccanismo
del mercato, controllato da regole certe, chiare e trasparenti, per ridare a
questo sistema economico, e all’Italia, il suo merito di essere il sistema
migliore per far crescere materialmente e moralmente le persone.
Condivisibile la tesi sulla credibilità del capitalismo se
fondato su basi morali, etiche, ma allora la domanda principale diventa: quale
morale? Chi stabilisce le regole? Su quali basi fondarle?
Allora vogliamo filosofi morali che diventano economisti,
come il ‘vecchio’ Adam Smith, per non trovarci a parlare dopo i disastri degli
economisti con i filosofi morali e constatare ancora una volta che le crisi
economiche provengono innanzitutto da crisi etiche e valoriali. Non possiamo
illuderci che “Questa volta è diverso” come provocatoriamente hanno intitolato
il loro poderoso testo gli economisti americani di Harvard Kenneth S. Rogoff e
Carmen M. Reinhart.
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